“Uppgivenhetsyndrom”, ovvero “la sindrome della rassegnazione” è un disturbo psicologico che è stata riscontrata per la prima volta tra bambini e adolescenti che vivono in Svezia. Le vittime, tutte figli di migranti a cui il governo svedese ha revocato lo status di rifugiato e il permesso di residenza, hanno sviluppato questo disturbo dissociativo, cadendo in uno stato catatonico e incapaci di reagire agli stimoli vitali. L’unica cosa che fanno è rimanere nel loro letto e vengono nutriti tramite un sondino.
Il caso italiano di sindrome della rassegnazione
Nel caso dei ragazzi in Svezia era stata riscontrata una reazione a qualcosa che può essere assimilabile alla perdita di speranza, di capacità di investire sul futuro che può portare a questo stato. Una sorta di rassegnazione che in alcuni casi ha addirittura portato al coma.
Il primo caso italiano è stato riscontrato in carcere, dove un detenuto dorme da mesi senza interruzione. Trasferito da Regina Coeli a Secondigliano per le cure, il suo caso è stato denunciato dall’associazione @antigoneonlus , che si occupa di garantire i diritti nel sistema penale. L’uomo ha 28 anni ed è di origini pakistane e da mesi deve essere alimentato.
La denuncia della Uppgivenhetsyndrom
Lo scatto che per primo ha raccontato questa sindrome è di Magnus Wennman, vincitore della categoria Persone di World Press Photo 2018. La foto è stata realizzata per il reportage di Rachel Aviv, per il New Yorker, con due sorelle di etnia rom che dormono in un sonno profondo, Djeneta (12 anni) e Ibadeta (15), figlie di rifugiati kosovari ospiti a Horndal, in Svezia. La loro perdita totale di sensibilità agli stimoli fisici è stata causata da un forte trauma, stress e depressione, a causa della situazione di precarietà in cui si sono trovate a vivere.

I primi casi di bambini affetti dalla Resignation syndrome si sono registrati negli anni duemila ma solo nel 2014, la malattia è stata formalmente riconosciuta dalle autorità sanitarie. Molti ragazzi presentano addirittura sintomatologie di coma e infine si lasciano morire.
Secondo gli psicologi, questa sindrome riguarda in particolare le persone che affrontano “il viaggio” per mare o per terra, arrendendosi alla realtà. Dopo aver tanto lottato per la propria vita, si arriva a realizzare che non c’è spazio, non ci sono aiuti o mete e questo annienta le energie vitali, arrivando anche a compiere atti estremi come il suicidio.
La soluzione degli svedesi
In molti casi, questa sindrome, nei paesi del nord Europa, è stata curata. Esistono dei programmi che agiscono in maniera integrata sul “paziente”. Questo avviene attraverso le terapie corporee, ma anche aiutando le famiglie. Si cerca di favorire la loro integrazione nella società e farli reagire ai traumi che hanno impedito loro di svolgere una funzione protettiva e “’rivitalizzante” nei confronti dei propri bambini.
«C’è una condizione di trauma alla base – spiega la dottoressa Maria Pontillo dell’ospedale Bambin Gesù – un distacco iniziale e una mancata integrazione al luogo d’arrivo. L’intervento proposto dagli svedesi riguarda il riconoscimento di un permesso di soggiorno ai genitori dei ragazzini e favorire integrazione nella nuova comunità. In un tempo di sei mesi, segnalano i colleghi, si vedono dei miglioramenti. Di certo è una misura necessaria, ma dentro un approccio integrato. Serve supporto psicologico a 360 gradi, con componente psicosociale che cura i rapporti nelle comunità di appartenenza per favorire l’inserimento a scuola e, nei casi più gravi, anche un intervento farmacologico».
L’unica cura finora disponibile sembrerebbe quella di offrire alle famiglie un permesso di soggiorno, anche temporaneo. Non è raro che una volta ricevuto, i pazienti rimangano in questi stato per mesi, perché si può ipotizzare che eventi fortemente traumatizzati portino a eventi dissociativi così gravi che vi è il bisogno di molto tempo per recuperare e tornare a sperare.
In copertina foto da Pixabay